Ci sono calciatori che paiono predestinati. Uomini a cui il destino ha riservato autostrade a quattro corsie verso una carriera e una vita da star. Hector Castro non fa parte di questa cerchia di eletti. A Hector Castro, il destino ha messo un ostacolo di quelli monumentali, di quelli che avrebbero indotto a desistere anche i più tenaci. Hector Castro però non si è fermato, e ha conquistato la vetta, arrivando fin lassù, più in alto di tutti, sul tetto del mondo.
Hector Castro nasce a Montevideo il 29 novembre del 1904. All'alba del ventesimo secolo, in Uruguay, così come in molte altre nazioni del mondo, compresa la nostra Italia, l'infanzia, per ogni bambino, finisce presto, molto presto. Hector non fa eccezione: è così che, quando ha poco più di dieci anni, prende a lavorare in una falegnameria. E' proprio in quella falegnameria che nel 1917 si materializza quel destino infame, quello che in un attimo può rovinarti la vita intera, irrimediabilmente, senza possibilità di tornare indietro. Hector sta lavorando con la sega elettrica: gesti ormai automatici, ripetuti chissà quante volte nella vita. Quella volta, però, qualcosa va storto: quella sega elettrica diventa un'arma imbizzarrita, taglia di netto la mano destra e parte dell'avambraccio di Hector.
Una tragedia vera, una disgrazia ancor più grande per chi il pane se lo guadagna facendo il manovale. Hector continua a fare quello che può sul lavoro, ma nel frattempo decide di gettarsi anima e corpo sulla sua più grande passione: il pallone. Gioca come attaccante, i piedi non sono raffinati, ma Hector può vantare qualità fisiche invidiabili: un "fisico bestiale", lo avrebbe definito Luca Carboni più di settant'anni dopo. E' straripante, Hector, salta 60 centimetri da fermo, gli mancano una mano e un pezzo di avambraccio, ma in campo il suo handicap proprio non si vede. Le sue doti, nel 1921, gli valgono la chiamata del Club Atletico Lito di Montevideo, che lo lancia in prima squadra a soli 17 anni. Per tutti, Castro è "El Monco", inequivocabile e macabro riferimento all'incidente che quattro anni prima lo ha privato di una mano. Un soprannome che in futuro muterà ancora.
L'Atletico Lito gioca nella massima serie uruguagia, ma è una compagine modesta che presto diventa stretta per un giocatore come Castro. Nel 1924, quindi, ecco la chiamata che non si può rifiutare: è quella del Nacional, uno dei club più prestigiosi della capitale. Castro accetta e spicca il volo verso l'Olimpo di uno sport che, nel 1924, in Uruguay è già religione. Con la "Tricolores", Hector vince subito il campionato nazionale, passa un altro anno ed ecco la convocazione con la Celeste. Nel 1926 l'Uruguay vince il Campeonato Sudamericano de Futbol, versione pionieristica della Copa America. Castro partecipa alla spedizione in Cile e non si accontenta di un ruolo da comparsa: segna sei reti e trascina letteralmente la Celeste sul trono continentale. Ecco che quel soprannome, "El Monco", cambia e diventa "El Divino Monco". Non c'è bisogno di spiegazioni, Castro è ormai un idolo per la nazione. Ma il suo riscatto nei confronti di un destino che ha provato ad abbatterlo è appena iniziato.
L'epoca d'oro del calcio uruguaiano prosegue due anni dopo, quando la Celeste sbanca il Vecchio Continente e si porta a casa l'oro ai Giochi Olimpici di Amsterdam: anche qui "El Divino Monco" è tra i protagonisti. Ma l'appuntamento della vita, quello da non sbagliare per nessuna ragione al mondo, arriva nel 1930: l'Uruguay ospita la prima storica edizione dei Mondiali, Castro figura tra i convocati dell'entrenador Alberto Suppici. Tredici anni prima, il destino si era travestito da sega elettrica e tagliandogli una mano aveva portato a strappargli via un sogno, ora Hector era lì, a sfidare il mondo difendendo i colori della sua patria. Il 18 giugno del 1930 l'Uruguay esordisce contro il Perù: la Celeste vince 1-0, la rete porta la firma di Castro, che così mette a segno il primo gol uruguagio nella storia dei Mondiali. No, al "Divino Monco" fare da comparsa non piace per niente. Eppure, l'ex falegname di Montevideo, nel prosieguo del torneo, è costretto a mettere da parte la sua insaziabile voglia di rivincita. Suppici gli preferisce Peregrino Anselmo, riserva due anni prima ad Amsterdam, bandiera del Penarol.
Anselmo ripaga la fiducia, segna ed è destinato a giocare da titolare anche la finalissima del 30 luglio. Suppici ha scelto lui, ma l'attaccante del Penarol alza bandiera bianca. Troppa pressione, troppa tensione, troppe responsabilità nei confronti di una nazione intera. Qualcuno dirà che a frenare Anselmo fu (anche) la paura del trattamento che Monti, mastino argentino, avrebbe riservato alle sue caviglie, sta di fatto che Anselmo, quella partita, non vuole saperne di giocarla. Quella partita è per gente con la pelle dura, gente abituata a fare i conti con le peripezie che la vita mette di fronte. Quella è una partita per un uomo come Hector Castro, che dopo aver perso una mano a tredici anni non si è arreso, ha lottato ed è arrivato fin lì, alla finale dei Mondiali. Eppure anche lui non è dei più sereni. No, perchè la notte prima della finalissima il suo telefono ha squillato, e dall'altra parte una voce misteriosa ha proferito minacce inequivocabili: "Se l'Uruguay vincerà questa partita, domani non ti alzerai dal tuo letto". Minacce simili che sono arrivate alle orecchi di molti giocatori, sia dell'Uruguay che dell'Argentina, prima di quella partita che ha il sapore di una guerra. Ma Hector, a differenza di altri, non vuol voltare le spalle alla sua nazione, se ne infischia delle minacce, ingoia il boccone e va in campo. Nelle foto di rito si vede chiaramente "El Divino Monco" che copre il moncherino con la mano sinistra. Un handicap che in campo, come al solito, nessuno noterà. Sarà proprio lui, Castro, lui che avrebbe dovuto accomodarsi e guardare da fuori quella partitissima, a chiudere i conti siglando la rete del 4-2. L'Uruguay è campione del mondo, in vetta c'è anche Hector, che lassù è arrivato arrampicandosi con una sola mano.
La sua carriera proseguirà per altri sei anni: una carriera tutta targata Nacional (fatta salva la parentesi argentina, all'Estudiantes, nel '32-'33), dove chiuderà nel '36 con 145 reti in 231 gare disputate e tre campionati nazionali vinti. Con la Celeste sarà ancora protagonista nel 1935, vincendo, manco a dirlo, da protagonista, il Campeonato Sudamericano giocato in Perù. In seguito, Castro diventerà un idolo Tricolor anche nelle vesti di allenatore: con "El Monco" nel ruolo di "entrenador", il Nacional vincerà quattro titoli consecutivi nella prima metà degli anni '40. Dopo un altro campionato vinto nel '52, per Castro arriva anche la chance sulla panchina della Celeste, che gli viene affidata nel 1959. Un'avventura che durerà poco: "El Divino Monco" presto si ammalerà, e nel 1960 un attacco cardiaco se lo porterà via a nemmeno 55 anni.
Hector Castro se n'è andato quasi sessant'anni fa, ma resta un simbolo per quelli che non vogliono arrendersi ad un fato avverso, quelli che una volta incassato il colpo rialzano la testa e affrontano la vita a viso aperto, senza piegarsi, nè tantomeno spezzarsi. Perchè se il destino cerca di abbatterti, puoi sempre reagire, tirargli uno schiaffo in pieno volto e procedere sulla strada che tu hai scelto, ignorando quella sulla quale vorrebbe portarti lui. Proprio come ha fatto Hector Castro, "El Divino Monco", che si arrampicò sul tetto del mondo senza una mano.
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