Quando il pomeriggio del 7 agosto del
1936 Adolf Hitler si accomodò sulle tribune di uno stadio Olimpico
di Berlino vestito a festa per la rassegna olimpica che avrebbe
dovuto mostrare al mondo la magnificenza del Reich, probabilmente
pensava ad una normale uscita di propaganda. Il Fuhrer non aveva mai
assistito, prima di quel giorno, ad una partita di calcio, ma dalle
stanze dei bottoni avevano suggerito che era giunto il momento di
raccogliere consensi anche tra gli adepti di quella fede che anche in
Germania aveva raggiunto impressionanti picchi di popolarità.
Questo, e nulla più, era il calcio per Hitler: un mezzo come un
altro per giungere al suo fine, ossia l'allargamento dei consensi nei
confronti del Reich. Una Germania nazista che negli ottavi di finale
aveva comodamente strapazzato il Lussemburgo, sommerso da nove reti,
e che prometteva di concedere il bis contro una Norvegia che appariva
come un manipolo di sconosciuti dilettanti, o poco più. Quale
occasione migliore, se non quella di un trionfo annunciato, per
salutare l'ingresso di Adolf Hitler nel mondo del pallone?
martedì 23 maggio 2017
giovedì 11 maggio 2017
Ferenc Deàk, quando i gol non bastano
Per molti esiste
una sola discriminante in base alla quale giudicare un attaccante. In
barba ai “falsi nueve”, ai centravanti di manovra, a quelli
“moderni”, quelli che tanto si sacrificano per la squadra, per
tanti l'unico criterio in base al quale un attaccante dev'essere
giudicato è quello dei gol segnati. Perchè è il gol l'obiettivo
del gioco, è il gol ad emozionare, a far gridare le folle: è il gol
l'unica cosa che conta davvero in un mondo, quello del calcio, che è
stato sviscerato ed analizzato in ogni suo più piccolo dettaglio.
mercoledì 10 maggio 2017
Maradona, il più forte dopo El Goyo
Villa Fiorito, barrio posto nella
periferia sud di Buenos Aires, non è esattamente il migliore dei
luoghi dove vivere. Anzi, si potrebbe proprio dire che, se proprio
non ci son di mezzo cause di forza maggiore, è decisamente
consigliabile tenersi alla larga da quel quartiere: strade
dissestate, baracche a perdita d'occhio, la malavita e i trafficanti
d'armi a dettare legge. Se qualche temerario, all'alba degli anni
Settanta, avesse però trovato il coraggio di fare quattro passi in
quell'angolo di mondo dimenticato da Dio, avrebbe avuto buone
probabilità di imbattersi, in uno dei campetti polverosi che si
trovano in ogni periferia di ogni città di ogni nazione colonizzata
dal calcio, in una squadra di ragazzini che, in quegli anni, fece
molto parlare di sé nella capitale argentina. “Los Cebollitas”,
si facevano chiamare: “le cipolline”, nome che di certo non
potrebbe incutere timore in alcun avversario. Poco male, quella era
in realtà una selezione giovanile dipendente dall'Argentinos
Juniors, una squadra che non badava alle apparenze, quello era un
gruppo di ragazzini che preferiva che a parlare fosse il campo, e il
campo, nel 1973, raccontò di una squadra capace di vincere 136
partite una in fila all'altra, conquistando due campionati più un
torneo di calcio giovanile intitolato a Evita Peròn.
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