martedì 4 ottobre 2016

Quando Ronaldo mi diede il benvenuto

 La storia d'amore tra me e il pallone ha una data d'inizio ben precisa. E' una di quelle storie cominciate con un colpo di fulmine, di quelli che nel giro di pochi istanti ti stravolgono completamente la vita. Quella data, quello spartiacque, è il 29 giugno del 2000: Italia-Olanda, semifinale dell'Europeo, per gli azzurri vittoria ai rigori dopo 120 minuti di sofferenza pura. Quel giorno mi innamorai del pallone e di tutto ciò che lo riguardava anche solamente di striscio. Per sentirmi davvero parte di quel meraviglioso mondo, però, dovetti aspettare ancora più di un anno. Un anno in cui mi limitai a fare da spettatore, uno spettatore tra i più interessati, certo, ma senza sentirmi mai direttamente coinvolto in qualcosa che mi affascinava terribilmente e che da un momento all'altro aveva preso a monopolizzare i miei pensieri. Ma dopo un po' di paziente attesa arrivò anche quel momento. Era il 23 settembre del 2001 e anch'io, finalmente, presi parte a quel mistico rito domenicale che era la Serie A, anch'io diventai parte attiva nel magico mondo del pallone. E il benvenuto me lo diede il più grande, Luiz Nazario de Lima detto Ronaldo. O almeno, a me piace pensare che sia così.

E' il 23 settembre 2001, si gioca la quarta giornata del campionato 2001-2002, al Delle Alpi di Torino, per affrontare i granata guidati da Camolese, arriva l'Inter di Cuper, di Vieri, di Ronaldo.

Nonostante l'estate sia appena terminata, quella domenica ha sfumature decisamente autunnali: cielo grigio, vento che si fa fresco, qualche goccia di pioggia che di tanto scende ad anticipare l'autunno che sta per arrivare. Da Cuneo, a mezzogiorno, o giù di lì, parte una macchina: a bordo quattro tifosi granata, uno è mio zio, il responsabile del fatto che la mia malattia per il pallone abbia preso tinte granata, uno sono io, che ho dieci anni, che sto per fare il mio ingresso in un mondo che dal giugno dell'anno precedente mi ha completamente e inesorabilmente stregato. E' il 23 settembre, ma per me è Natale: si va allo stadio, per la prima volta nella mia vita tra me e quel paese dei balocchi non ci sarà lo schermo di un televisore. Quel giorno ci sarò anch'io, a pochi metri dai miei idoli, e già penso alla sera, quando Carlo Nesti commenterà la partita a 90° Minuto, ed io potrò orgogliosamente dire: "Guardate, lì, oggi, c'ero anch'io".

Si arriva allo stadio, lo stadio Delle Alpi. E rimango a bocca aperta. Per me non è uno stadio, ma un tempio, un tempio che ogni domenica ospita le gesta dei miei idoli, dei miei eroi, che non sono esattamente campioni, ma sono i calciatori della mia squadra, e quindi, per me che ho solo dieci anni, sono i più bravi, i più forti, i più grandi di tutti. E quant'è grande, quello stadio, rimango a bocca aperta, vado su con lo sguardo. Vado su, e ancora su, ma quello stadio non finisce mai, è un grattacielo infinito per un bambino di dieci anni che non ha mai visto altro impianto al di fuori di quello del paesino in cui vive.

E poi si entra allo stadio, la Polizia perquisisce tutti, anche i bambini. Cercano qualcosa anche nel sacchetto dei panini che mia madre ha preparato la mattina, e io mi chiedo perchè, mi chiedo cosa possano sperare di trovare nelle tasche di un bambino di dieci anni. "E' una partita di calcio, che cosa fanno qui tutti questi poliziotti?", penso nella mia testa. Ingenuità di un bambino di dieci anni al quale il pallone non ha ancora fatto in tempo a mostrare il suo lato peggiore.

E poi si va dentro, nella pancia del Delle Alpi, e mi manca il fiato. Sono tutti là, i miei idoli, a pochi metri da me. Non poi così pochi, a causa di quella maledetta pista che separa la curva Maratona dal campo, ma in quel momento poco mi importa. Sono tutti su quel prato, non c'è nessuno schermo a dividerci, sono proprio lì, li vedo, li sento. La domenica di Serie A sta per prendere il via, e stavolta ci sono anch'io. Niente più pranzi con i parenti, niente più passeggiate con mamma e papà, niente più gite fuori porta: finalmente, la domenica pomeriggio alle ore 15, sono esattamente dove vorrei essere, allo stadio a respirare calcio, a tifare per la mia squadra.

E' una grigia domenica autunnale, è una scialba partita di inizio stagione che sicuramente non passerà alla storia, ma per me l'emozione è quella della finale dei Mondiali, perchè su quel prato davanti a me ci sono tutti i miei idoli vestiti di granata: c'è Bucci, che nella mia testa è meglio di Buffon, c'è Asta, che da lì a poco conquisterà il mio cuore e la maglia della nazionale, c'è Lucarelli, il colpo dell'estate ai quali tutti noi chiediamo i gol salvezza, c'è Camolese, che l'anno precedente ci ha condotti a una splendida rimonta e a una promozione dalla serie B che ho seguito interamente su Tele Più. Ma ora niente tv, niente Tele Più, ora sono lì, a tifare per la mia squadra, arricchendo tra l'altro il mio repertorio di parolacce. Quante cose nuove può imparare un bambino di dieci anni in uno stadio di Serie A.


Della partita, devo essere sincero, ricordo poco: la sintesi di Carlo Nesti mi mostra oggi alcuni prodigiosi interventi di Bucci, un Toro che si difende con ordine ma che fatica a pungere, con un Lucarelli troppo isolato, una gara noiosa, noiosissima, decisa da un episodio, il fallo di Galante su Ventola al minuto 27 della ripresa. Rigore, Kallon segna , il Toro non si rialza, l'Inter porta via i tre punti dal Delle Alpi.

Ma non sono le azioni, non sono le giocate, non è quel rigore trasformato da Kallon il ricordo più nitido di quel Natale anticipato del 2001. Il mio vero ingresso nel meraviglioso mondo del pallone, almeno secondo l'immagine di quella giornata che oggi i miei ricordi mi restituiscono, avviene a metà del secondo tempo. L'Inter non riesce a sbloccare la partita, Cuper si volta verso la panchina e fa cenno a qualcuno di andare a scaldarsi. Quel qualcuno non è un giocatore qualunque, è Luiz Nazario de Lima, è Ronaldo, è il Fenomeno, convocato per la prima volta dopo il gravissimo infortunio al ginocchio. Il brasiliano spunta dalla panchina, si alza per avviarsi verso la zona dedicata al riscaldamento e rivolge lo sguardo verso di noi, verso la curva Maratona. Verso di me. Ricordo un'emozione irrazionale e fortissima, ricordo i miei pensieri: "Oddio, quello è Ronaldo, è davvero lui, ed è qui, a pochi metri da me. E ha guardato verso di me". Nella testa di un bambino di dieci anni anche un calciatore che effettua il riscaldamento a decine di metri di distanza rivolgendo un mezzo sguardo verso la curva può diventare un ricordo indelebile. Per me è stato così. Perchè quello non era un calciatore, era Il Calciatore, e anche se non esisteva You Tube conoscevo a memoria ogni suo gol, ogni suo numero, ogni sua caduta ed ogni sua risalita.


Ronaldo poi non sarebbe entrato, Kallon avrebbe deciso la gara e Cuper non avrebbe rischiato il brasiliano. Ci avviammo verso casa poco dopo il triplice fischio dell'arbitro Farina. Tutti i granata erano delusi per la sconfitta. Io no. Io ero felice, io avevo fatto il mio ingresso nel mondo del pallone, mi ero sentito finalmente parte attiva in un pianeta affascinante, di cui non avrei più potuto fare a meno. Era bello guardare le partite su Tele Più, era bello aspettare le sintesi ogni domenica sera a 90° Minuto, ma essere lì, bè, essere lì era tutta un'altra cosa.

E nella mia testa ero davvero convinto che Ronaldo, quello sguardo, lo avesse rivolto verso di me, come a darmi il benvenuto, come ad accogliermi in quel pazzo mondo che da lì in avanti avrebbe monopolizzato le mie domeniche.

Il Toro aveva perso, ma finalmente io ero entrato a fare la mia parte nel pianeta pallone, un piante in cui a darmi il benvenuto, sbucando all'improvviso dalla panchina dello stadio Delle Alpi, era stato niente meno che Luiz Nazario de Lima, niente meno che il Fenomeno. Ed ero felice.

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