mercoledì 28 dicembre 2016

Vincere non è la sola cosa che conta


"Vincere non è importante, è la sola cosa che conta". Parole di Giampiero Boniperti, parole che non ho mai particolarmente apprezzato. Io tifo per il Torino, ma non è per questo motivo che il mio modo di intendere il calcio è lontano anni luce dalla mentalità espressa da quest'aforisma coniato da uno dei simboli della storia bianconera. No, non è per questo che questa frase non mi piace, non mi è mai piaciuta e, probabilmente, mai mi piacerà. Se non riesco a sentire mie queste parole e la filosofia che sta alle loro spalle è perchè riducendo tutto al mero obiettivo finale della vittoria mi sembrerebbe di fare un affronto al calcio, di insultare tutto ciò che mi ha fatto vivere in vent'anni d'amore, a tutte le emozioni che mi ha regalato. E no, le emozioni non sempre collimano con le vittorie. Anzi, se qualcosa riesce a toccare i tasti delle tue emozioni e farli vibrare senza avvalersi del brivido e del gusto di una vittoria, allora quel qualcosa è tremendamente, immensamente potente. No, nel calcio non conta solo la vittoria. Per fortuna non è così, e se devo scegliere una data in cui l'ho imparato, scelgo il 9 giugno 2010.

La sera del 9 giugno 2010, allo stadio Olimpico di Torino, è in programma la gara d'andata della finale playoff del campionato di Serie B 2009-2010. Si sfidano Torino e Brescia, che in semifinale hanno eliminato rispettivamente Sassuolo e Cittadella. E' una stagione tormentata per il mio Toro: a dicembre, con la squadra che arranca a metà classifica, iniziano a circolare strane voci, sospetti di partite truccate, di un'altra sporca storia di calcioscommesse in cui alcuni giocatori granata sarebbero coinvolti. Il 7 gennaio alcuni di questi giocatori vengono addirittura aggrediti da un gruppo di tifosi in un ristorante torinese. Il Toro è una polveriera, a gennaio, sul mercato, la squadra viene totalmente rivoluzionata: la promozione sembra una chimera, i granata sembrano doversi rassegnare ad un altro anno di Serie B, sarebbe il secondo consecutivo. La squadra costruita da Petrachi dopo il caos invernale, guidata da Colantuono, riesce invece a risalire la china: al fischio finale della giornata numero 42, l'ultima della stagione regolare, il Torino è quinto, qualificato per i playoff.

Dopo aver eliminato il Sassuolo in semifinale, come detto, la sera del 9 giugno 2010 va in scena il primo atto della finalissima, l'avversario è il Brescia. E' un traguardo che sembrava impensabile fino a pochi mesi prima, a Torino la febbre sale, il clima d'attesa è quello di una finale di Champions League.

Stefano Colantuono, il nostro mister, quella sera

All'epoca ho 18 anni, non sono un habituè dello stadio, nè lo diventerò negli anni a venire, ma quella è una serata alla quale è vietato mancare. Anche solo per tributare il giusto ringraziamento a quel manipolo di semisconosciuti che si sono vestiti di granata a gennaio e hanno centrato una rimonta per certi versi clamorosa. Morello, D'Aiello, Scaglia, Statella, Genevier, Garofalo, Pestrin ed altri ancora: onesti mestieranti del pallone, una vita nelle serie inferiori, è a questi uomini che quella sera si affida il popolo granata, è a loro che si chiede di riportare il Toro nella massima serie. Gente che la Serie A non l'ha vista mai, e nella maggior parte dei casi mai la vedrà. Ma non è questo che conta, i playoff se li sono presi loro, con le unghie e con i denti, e la sera del 9 giugno 2010 sono lì a giocarseli. Conta questo, non il curriculum o il palmarès di ognuno di loro.

Non si può mancare, ad una serata così. Tre amici, quattro biglietti per la curva Primavera, quattro per il treno, tratta Savona-Torino, e nel tardo pomeriggio di mercoledì 9 giugno 2010 si parte alla volta dello stadio Olimpico. E' una serata di inizio estate, ma sembra agosto inoltrato. Caldo torrido, in treno quasi non si respira, e poi c'è l'adrenalina, quell'adrenalina che sale ogni volta che metti piede allo stadio per sostenere la tua squadra. E non conta che sia una finale playoff, una finale dei Mondiali o una semplice amichevole estiva: quell'adrenalina, quella tensione, sono sempre uguali, uniche. Non le ho mai vissute in un posto diverso dallo stadio, quelle sensazioni. Perchè il calcio ti può emozionare anche se sei seduto sul divano, di fronte ad uno schermo, ma se sei là, a pochi metri dal campo e dai tuoi idoli, e senti l'odore dell'erba, e intorno a te vedi volti tesi quanto il tuo, persone arrivate lì tutte per il medesimo motivo, e con la tua voce ti sembra di poter aiutare davvero il tuo terzino a correre un po' più forte, il tuo portiere a volare un po' più in alto, il tuo attaccante a colpire con più potenza...beh, se provi tutte queste sensazioni è proprio un'altra cosa, rispetto a quando te ne stai seduto davanti alla tv. Per questo, quando vado allo stadio, mi piace prendere un biglietto in curva: perchè la curva è un cuore che batte, in curva non si guarda la partita, in curva si gioca la partita insieme agli undici ragazzi in campo. O almeno, è così che mi piace pensarla. 

Poco dopo le 19 scendiamo alla stazione Lingotto, si prosegue a piedi verso lo stadio, venti minuti di cammino e siamo là, sotto la torre Maratona che dà il nome alla curva. Panino, birra, e si entra: siamo impazienti, quel manipolo di ragazzi, nel suo piccolo, quella sera può scrivere la storia, e noi ci saremo. 

Saliamo le scale che portano in curva, il rumore che viene dalla pancia dello stadio fa salire ancora di più quell'adrenalina che mi pervade già da ore. Ci siamo, eccolo, il rettangolo verde, eccoli, i giocatori che stanno ultimando il riscaldamento. Prendiamo posto in curva, siamo pronti anche noi, per cantare, per saltare, per tifare, per fare la nostra parte e giocare la nostra partita.


Morello; D'Aiello, Loria, Ogbonna; Antonelli, Barusso, Genevier, Rubin; Gasbarroni, Scaglia, Bianchi. Il Toro scende in campo così. Qualche buon giocatore, qualche giovane di prospettiva, tanti calciatori che alle platee del grande calcio non dicono assolutamente nulla: non importa, per me, quella sera, sono undici fuoriclasse. 

Lo stadio è stracolmo e ruggisce accompagnando gli attacchi del Toro. Nel primo tempo si gioca in pratica ad una porta sola: ci provano Bianchi, Loria, Gasbarroni e Barusso, ma l'imprecisione e le parate del portiere bresciano Arcari tengono il risultato inchiodato sullo 0-0. Però io ci credo, e con me gli altri 29 mila cuori granata: giochiamo bene, stiamo spingendo il gol arriverà. Forse serve cantare un po' più forte, farci sentire ancora un po' di più. Ci proviamo, può servire anche questo, per sbloccare una finale dei playoff di Serie B. Nella ripresa il copione non cambia: noi attacchiamo, il Brescia si difende. Eppure restiamo 0-0, quella palla non vuole saperne di entrare. 

Poi, quando siamo ormai nel recupero, dal piede destro di Gasbarroni parte un lancio profondissimo. Il destinatario, al limite dell'area bresciana, è Rachid Arma, attaccante marocchino subentrato dieci minuti prima a Scaglia. In quel campionato ha giocato poco e segnato ancor meno, ma ora può diventare un eroe vero e proprio. Sì, perchè il suo marcatore, Martinez, si fa sorprendere dalla traiettoria del lancio di Gasbarroni, e Arma gli sguscia alle spalle. La palla plana sul destro dell'attaccante marocchino, che controlla e prende la mira verso la porta di Arcari. Diagonale di destro, rete che si gonfia, gol, lo stadio che esplode. Non so dire cosa accada con precisione in quegli istanti: vengo travolto da un mare di persone festanti, la curva, letteralmente, viene giù. Perdo tutti i miei amici, vengo trascinato dalla marea, ubriaco di gioia, non so come, non so perchè, mi ritrovo abbracciato ad un signore anziano, che mi stringe forte e piange di felicità. Non so come si chiami, non l'ho rivisto mai più, so che era un signore sulla sessantina, e stava piangendo come un bambino per un gol della sua squadra in una finale playoff d'andata, quindi nemmeno così decisiva. Eppure mi stringeva ed esultava. "Gol! Abbiamo segnato! Gol!". E che vuoi fare quando uno sconosciuto ti abbraccia piangendo al 90' di un Torino-Brescia in una calda sera di giugno? Lo abbracci anche tu, esulti anche tu, urli e ti emozioni anche tu. E allora lo stringo a me, lo alzo verso il cielo, esultiamo insieme, come fossimo fratelli (o forse padre e figlio, o forse nonno e nipote), anche se non ci eravamo mai visti prima e mai ci saremmo rivisti dopo quella sera. Era un perfetto sconosciuto, ma fu un momento di un'intensità incredibile, di quelli che se non ci sei dentro non puoi capire, di quelli che per davvero ti mettono la pelle d'oca. Non durò che qualche decina di secondi, ma ricordo quel momento con incredibile nitidezza.

Rachid Arma

Poi la marea della curva si placa, lo stadio si ricompone, guardo verso il tabellone dell'Olimpico, deve mancare pochissimo alla fine. "Dài, arbitro, fischia, che è finita!". E invece, sul tabellone il risultato recita così: Torino 0, Brescia 0. "Come 0-0? Com'è possibile? Abbiamo segnato, ha segnato Arma, siamo 1-0 per noi!". E invece è tutto vero, Damato ha visto una trattenuta di Arma su Martinez, che la moviola rivelerà essere decisamente impercettibile e ininfluente, ed ha annullato il gol. Torino-Brescia finisce 0-0, nella sfida di ritorno Arma segnerà per davvero, ma le Rondinelle vinceranno 2-1 prendendosi la Serie A.

Il primo impatto non fu facile, tornando a casa con i miei amici non riuscivo a darmi pace. "Oltre al danno, la beffa, è sempre così per noi del Toro".

Poi cambiai idea. Fu questa serata, questa incontenibile esultanza per un gol annullato, abbracciato ad uno sconosciuto, nel cuore della curva del Torino, a portarmi ad una conclusione. Vincere è bello, certo, e mi sarebbe piaciuto che quel gol fosse stato convalidato, che Damato non avesse visto quella trattenuta, che avessimo vinto quella partita e che in Serie A ci fosse andato il Toro. Mi sarebbe piaciuto, sì, sarebbe stato bello. Poi, però, passata la rabbia iniziale, mi accorsi che era stato bello lo stesso. Sì, era stato bellissimo, perchè anche se quel gol, di fatto, non esiste su nessun tabellino e su nessun almanacco, io quell'emozione l'ho vissuta per davvero. Era vera, autentica, impagabile. Non avevamo vinto la partita, non saremmo stati promossi in Serie A, ma mi ero emozionato ed avevo gioito in maniera viscerale, quasi fino alle lacrime. Il fatto che quel gol fosse poi stato annullato non toglieva nulla all'intensità di quei momenti, a quelle sensazioni, a quei brividi che avevo provato. Mi ero sentito parte di un popolo che gioiva e soffriva per la medesima causa, avevo toccato con mano quell'eccezionale capacità che talvolta riesce ad avere il calcio, quella di unire anzichè dividere come troppo spesso accade, avevo provato una gioia genuina e primordiale, anche se breve ed effimera.

Fu quella sera che me ne convinsi: vincere è bello, ma emozionarsi lo è ancora di più.
E per emozionarsi, non è indispensabile vincere.

[A.D.] - liberopallone.blogspot.it - Riproduzione Riservata 

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4 - www.toronews.net

3 commenti:

  1. Articolo bellissimo che condivido pienamente. Vincere è emozionarsi, mettercela tutta, divertirsi. Penso che questo sia il giusto messaggio da trasmettere soprattutto ai più giovani. Stefano Perin

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  2. Articolo bellissimo che condivido pienamente. Vincere è emozionarsi, mettercela tutta, divertirsi. Penso che questo sia il giusto messaggio da trasmettere soprattutto ai più giovani. Stefano Perin

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  3. Articolo bellissimo che condivido pienamente. Vincere è emozionarsi, mettercela tutta, divertirsi. Penso che questo sia il giusto messaggio da trasmettere soprattutto ai più giovani. Stefano Perin

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