La corsa indiavolata e del tutto priva di logica di Gennaro Gattuso al minuto 119 della finale di Champions League del 2003, Milan-Juventus all'Old Trafford di Manchester. Se mi chiedessero di descrivere che cos'è secondo me il calcio servendomi di una sola immagine, sceglierei questa. Due ore di gioco in cui nessuna delle due squadre è riuscita a prevalere, ventun giocatori stremati attendono solo la fine dei supplementari per giocarsi la coppa ai rigori. Il ventiduesimo è Gennaro Gattuso, che ancora non si rassegna, e pressa, pressa come un tarantolato, in solitaria, sul giro palla dei bianconeri. Calzettoni abbassati, corpo ingobbito dalla fatica, gambe che iniziano a mulinare pescando energie da chissà dove. Per me, un'immagine emozionante, sintesi di volontà, grinta, determinazione. Per me il calcio è questo, spingersi oltre i propri limiti attraverso la fatica, nonostante la fatica, anche se il Signore non ti ha dato doti eccezionali, se non un cuore grande così. Da quest'introduzione potrete intuire qual è il genere di calciatore a cui più facilmente mi appassiono: ho sempre amato i gregari, i mastini, i "medianacci". Ma ogni regola ha un'eccezione, e la mia eccezione si chiama Ronaldo de Assis Moreira, nato a Porto Alegre il 21 marzo 1980.
Non ho mai amato i giocolieri, quei giocatori che all'arrosto preferiscono il fumo, con il numero da circo, spesso e volentieri meramente fine a sè stesso, sempre in canna. Mi piace vedere colpi di tacco o doppi passi, ma solo se funzionali nell'ottica di un'azione di squadra: mi piacciono i giocatori che badano alla sostanza, insomma, mi piacciono quei giocatori che non si perdono in inutili orpelli utili solamente a deliziare gli esteti e suscitare qualche "Oooooh!" di meraviglia. I ragazzi della mia generazione ricorderanno bene Fifa Street, videogioco uscito verso la metà dello scorso decennio in cui per totalizzare punti servivano colpi di tacco, finte, controfinte e giochetti assortiti. Inutile dire che non me lo presi mai, quel gioco. Quei calciatori lì, a dirla tutta, mi sono sempre stati un po' antipatici. Tutti, tranne uno. Ce n'era uno che non riuscivo a non amare, nonostante nei numeri da circo e affini fosse assolutamente il migliore. Anzi, forse proprio per questo motivo me ne innamorai. Parlo di Ronaldinho, ad oggi l'unico calciatore del suo genere capace di rapire il mio cuore di malato di pallone. Perchè Dinho giocava per deliziare la platea, certo, ma i suoi colpi non erano mai fini a sè stessi: in campo si divertiva a provare ogni genere di virtuosismo tecnico, ma non lo faceva per irridere gli avversari. Se puntava l'uomo provava spesso l'elastico, ma lo faceva perchè per lui era il metodo più efficace per saltare il diretto avversario e creare un pericolo. E sempre per creare pericoli agli avversari e servire cioccolatini ai compagni si esibiva in colpi di tacco, passaggi no-look e tutto quanto fosse nel suo repertorio. E insomma, ben poche giocate non rientravano nel suo repertorio. Una volta, ricevendo un lancio lungo sulla sinistra, si girò improvvisamente dando le spalle al pallone e facendoselo rimbalzare sulla schiena: non era un clamoroso errore, no. Dinho aveva visto un compagno inserirsi all'interno, e la sua schiena funzionò da sponda. La palla arrivò esattamente tra i piedi di quel compagno, Tra il 2004 e il 2006, semplicemente, Ronaldinho faceva un altro sport.
Ma quello con Ronaldinho, per me, non fu un colpo di fulmine. Fu un innamoramento graduale, arrivato passo dopo passo. Posso individuare tre fasi, tre fotografie, tre momenti che fecero scoppiare la mia passione per quel fantastico brasiliano con i dentoni.
Il primo approccio è datato 3 novembre 2004. Al Camp Nou si gioca Barcellona-Milan, fase a gironi della Champions League 2004-2005. Una finale anticipata, si affrontano due corazzate, due squadroni veri e propri, più che una partita di calcio è una parata di stelle. Una di queste, Andriy Shevchenko, porta in vantaggio i rossoneri al 17', ma Samuel Eto'o, venti minuti dopo, batte Dida e trova il pareggio. La partita prosegue poi sui binari della parità fino alle battute finali. Ronaldinho si nasconde, la sua sembra una serata grigia, non riesce mai ad accendersi, non riesce mai a trovare la giocata giusta: Dinho non si diverte. Fino all'89'. Mentre Eto'o arretra a farsi dare palla a metà campo, Ronaldinho è stretto nella morsa tra Nesta e Kaladze, i due centrali del Milan. L' unico modo per cercare respiro è arretrare di qualche metro. Dinho lo fa, Eto'o lo vede e lo serve. Quando il 10 blaugrana stoppa quella palla è stretto in una tenaglia terribile: Nesta esce su di lui, Gattuso sta accorrendo in suo aiuto, mentre al limite dell'area Maldini, Cafu e Kaladze si stanno stringendo per intervenire in seconda battuta. Divincolarsi e trovare un varco in un muro come questo sarebbe difficile per il 99% dei calciatori esistenti. Ronaldinho, però, fa parte del restante 1%. Nesta si aspetta che il brasiliano cerchi il tiro col destro, ma credere che Ronaldinho possa fare qualcosa di prevedibile è un errore da non commettere. Succede tutto in pochissimi istanti: stop a orientarsi verso la porta, tocco con l'esterno a portarsi la sfera verso destra, a mettere in trappola Nesta. Poi, in una frazione di secondo, la palla sparisce, per ricomparire qualche metro più a sinistra. Dinho ha scelto il mancino, quando Nesta se ne accorge il brasiliano sta già scaricando la bomba verso la porta di Dida: nemmeno lui, che è uno dei migliori difensori al mondo, ha il tempo per reagire. Botta secca, quasi terrificante, col piede che teoricamente è quello "debole": palla sotto l'incrocio, 2-1 Barcellona. E i miei occhi incollati alla tv, a vedere e rivedere quel replay. "Ma come ha fatto a liberarsi di Nesta? Già lo amo".
Ronaldinho riappare alle spalle di Nesta e batte Dida [3]
Qualche mese più tardi, ecco l'atto secondo di questa storia d'amore tra il sottoscritto e Ronaldo de Assis Moreira. La sera è quella dell'8 marzo 2005, altra notte europea, lo scenario quello dello Stamford Bridge di Londra. Nell'andata degli ottavi di finale di Champions League il Barcellona ha battuto 2-1 il Chelsea, ma la qualificazione è ancora apertissima. Quella che va in scena nella tana dei Blues è una partita pazzesca, ancora oggi la ricordo come una delle più belle a cui abbia mai assistito: ritmi indiavolati, una battaglia senza esclusione di colpi, continui capovolgimenti di fronte, gol, colpi di classe. Già all'8' Gudjohnsen raccoglie l'invito di Kezman e porta avanti il Chelsea, poi al 17' Frank Lampard firma il 2-0 ribadendo in rete la respinta di Valdès sulla conclusione di Joe Cole. Passano altri due minuti e arriva il terzo schiaffo: contropiede Blues, Damien Duff fa centro, Chelsea 3 Barcellona 0. Per i blaugrana sembra finita, ma i blaugrana hanno Ronaldinho, e se hai Ronaldinho non è mai finita, soprattutto nel 2005. Al 27' Dinho accorcia le distanze trasformando un calcio di rigore concesso da Collina per fallo di mano di Paulo Ferreira, ma è dieci minuti dopo che il brasiliano illumina la notte londinese e si prende un ulteriore pezzetto del mio cuore. C'è un lancio lungo, Ricardo Carvalho respinge di testa, la palla finisce tra i piedi di Iniesta, che non è ancora l'Illusionista ma già se la cava. Andrès addomestica il pallone e lo porge a Dinho: chi può inventare qualcosa per riaprire definitivamente la partita, se non lui? Il 10 brasiliano guarda la porta, pochi metri fuori dall'area, ma di fronte a lui c'è una muraglia umana: Carvalho, Terry, Ferreira, Gallas, Gudjohnsen in ripiegamento, più Lampard che rinviene alle sue spalle. Sei contro uno. Emblema di quanto i giocatori del Chelsea temessero Ronaldinho, simbolo di cosa significasse giocare contro Ronaldinho tra il 2004 e il 2006. Lui, Dinho, ci pensa un attimo. Finta di calciare una volta, finta un'altra volta, poi realizza che non c'è spazio per coordinarsi per il tiro. Nè, tantomeno, c'è tempo. Serve agire in fretta, Lampard, alle sue spalle, sta per piombargli addosso. E se non hai spazio e tempo, c'è un solo modo per colpire il pallone: di punta. Nessuno si aspetta che un giocatore dotato della sua tecnica possa tirare di punta in un ottavo di Champions League. Chi tira di punta, almeno secondo quella che è la mia decennale esperienza al campetto dell'oratorio, viene solitamente additato come quello scarso, quello che non è abbastanza dotato per calciare di collo o di piatto. Ma Ronaldinho, dopo una specie di balletto fatto da un paio di finte che letteralmente paralizzano i difensori, calcia di punta, in un ottavo di finale di Champions League. Cech nemmeno si tuffa, forse nemmeno lui crede a quello che ha visto: quando realizza, la palla ha già gonfiato la rete alle sue spalle. Ronaldinho ha superato il muro Blues con una giocata che tanti avrebbero potuto mettere in pratica, ma che solo lui avrebbe potuto pensare in quella situazione e in quel contesto. Terry, segnando il 4-2 al 76', regalerà la qualificazione al Chelsea, ma l'eliminazione del Barcellona, almeno per quanto mi riguarda, non tolse valore al capolavoro che quella sera mi regalò Ronaldo de Assis Moreira. Io, amante dei medianacci tutto cuore, ero stato rapito dal balletto di un brasiliano, che mi aveva fatto innamorare con finte e controfinte, in una sera di marzo del 2005, su un prato verde di Londra.
Gabbia intorno a Dinho. Non basterà. [4]
Ed eccoci al terzo atto, quello finale, quello che sancì definitivamente il mio amore sconfinato e incondizionato per Ronaldinho. Non è una notte europea, ma la sfida è ugualmente di quelle scintillanti. Sabato 19 novembre 2005, al Santiago Bernabeu di Madrid va in scena il Clasico, Real-Barcellona, che non è mai una partita normale. Quella sera Dinho scrive una pagina indelebile non solo della storia dell'eterna rivalità tra merengues e catalani, ma in assoluto nella storia del calcio. Eto'o porta in vantaggio il Barcellona, ma sono solo i titoli di testa di uno show che in qualche modo aprirà un'epoca, un'epopea, quella del grande Barça, tutt'ora in corso: il Ronaldinho-show, sul palco più prestigioso del mondo, quello del Bernabeu. E' il 60' quando Dinho riceve palla sulla linea di metà campo, defilato a sinistra, e inizia la sua meravigliosa recita. Lui e il pallone sembrano un'unica entità: quando Ronaldinho avanza con la palla al piede la sua corsa sembra più completa, quella sfera sembra essere un'appendice del suo corpo. Dinho corre veloce, Sergio Ramos tenta di fermarlo, entra in scivolata, ma il brasiliano se lo beve con una facilità che per il difensore spagnolo è quasi umiliante. Tocca poi a Helguera, che prova ad accompagnare Ronaldinho verso l'esterno. Niente da fare, Dinho ha la porta nel mirino: finta a sbilanciare il difensore madridista e cambio di direzione secco verso l'interno. Poi, come sempre, il colpo che non ti aspetti: Ronaldinho chiude il destro mirando il primo palo, quando sarebbe naturale aprire il piattone sul secondo. Anche Casillas l'aveva pensata così, e infatti, con il corpo completamente sbilanciato a sinistra, non può far altro che osservare la palla entrare. Real 0 Barcellona 2. Al 77' il bis, con Ronaldinho che riceve ancora palla sulla sinistra, questa volta qualche metro più avanti, e innesta le marce alte correndo verso la porta. Ancora una volta Ramos prova ad affrontarlo, ma Dinho nemmeno lo vede: due motori diversi, due velocità diverse, il brasiliano va ai mille all'ora. C'è Guti che prova una rincorsa, ma si ferma dopo pochi metri: lo ha capito anche lui, Ronaldinho è imprendibile, inarrestabile, quella sera. Ingresso in area, piattone destro sul secondo palo, questa volta sì, Real 0 Barcellona 3. Emblematica l'inquadratura di Casillas che la regìa spagnola manda in onda mentre il Barcellona esulta: sul volto del portiere del Real non ci sono nè rabbia nè nervosismo. C'è solo rassegnazione: Ronaldinho è troppo veloce, troppo forte, troppo imprevedibile per essere fermato. Non c'è modo per neutralizzare quel giocatore che tra il 2004 e il 2006 gioca un altro sport. Lo capisce anche il pubblico del Bernabeu, che si alza in piedi e batte le mani per il numero 10 del Barcellona: i tifosi madridisti tributano una vera standing ovation al giocatore che li ha appena mandati al tappeto, giocatore che veste la maglia dei rivali storici. Un onore riservato solamente a pochi, pochissimi eletti, da parte di uno stadio che, se si parla di fuoriclasse, ha senz'altro il palato fine. E forse è questa la più grande impresa della carriera di Ronaldinho: non un gol, non un assist, non un dribbling ben riuscito, ma la standing ovation del Bernabeu in quella sera di novembre del 2005.
Casillas allunga la mano, ma sa già che non ci potrà arrivare. [5]
Così, con queste tre mosse, tra il 2004 e il 2005, Ronaldinho fece innamorare uno che ha come idolo Gennaro Ivan Gattuso.
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Foto
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